Il Prof. Bruno Peyronel

Il Prof. Bruno Peyronel

Vogliamo qui approfondire la figura di Bruno Peyoronel, botanico e naturalista a cui è dedicato il Giardino Botanico Alpino, raccogliendo alcuni testi suoi e che parlano di lui.

Iniziamo con il ricordo che ne fecero i Naturalisti Piemontesi alla sua morte:

Il 15.XI.1982 è improvvisamente mancato, nella sua casa di Cavoretto (Torino), il Prof. Bruno Peyronel. Era nato a Roma il 29.III.1919.

Era una figura conosciutissima non solo nell’ambiente accademico torinese, dove da anni era docente di Botanica presso le Facoltà di Scienze Naturali e di Scienze Agrarie, ma in tutto l’ambiente naturalistico nazionale ed internazionale.

Figlio di Beniamino Peyronel, celebre micologo già direttore dell’Orto Botanico torinese, aveva iniziato la sua carriera nel lontano 1938, anno in cui, ancora studente, aveva ricoperto mansioni di vicedirettore del giardino alpino «Chanousia» al Piccolo San Bernardo, sotto la direzione del Prof. L. Vaccari. Nel 1941 aveva conseguito la laurea in Scienze Naturali presso l’Università di Torino, con una tesi su « La micorriza nelle Epatiche ». Assistente dal 1946 al 1948 alla cattedra di Botanica dell’Università di Ferrara, poi incaricato esterno di Botanica Sistematica a Torino dal 1951 al 1953, conseguì la Libera Docenza nel 1955. Dal 1959 al 1980 è stato assistente ordinario alla cattedra di Botanica presso l’Istituto e Orto Botanico dell’Università di Torino; nel 1975 aveva vinto il concorso per un posto di Professore ordinario, poi rifiutato per la necessità di un trasferimento lontano dal Piemonte che l’accettazione avrebbe comportato. Aveva ora appena superato il giudizio di idoneità per Professore associato presso la Facoltà di Scienze M.F.N. di Torino.

Il Prof. Peyronel aveva dunque 30 anni di esperienza di corsi di lezione, e 35 di corsi di esercitazioni universitarie: gli studenti ne apprezzavano moltissimo le qualità di docente onesto, appassionatissimo, critico, non conformista. La sua attività scientifica, volta a diversi campi della Botanica (fitogeografia, micologia, fitosociologia, floristica, sistematica), è documentata da 62 lavori pubblicati da solo o in collaborazione. «Naturalista nel senso classico del termine », come amava definirsi, aveva sempre preferito soddisfare la propria curiosità in diversi settori della sua, e di altre discipline naturalistiche, anziché scegliere una branca limitata di specializzazione. Era molto noto anche al grosso pubblico per numerosi articoli divulgativi su quotidiani, riviste e guide didattiche, per voci di enciclopedie, traduzioni e adattamenti a edizioni italiane di testi stranieri; ma soprattutto era conosciuto (amato e stimato, o contestato e discusso, a seconda dei punti di vista) per l’impegno sociale con cui lottava per la tutela della Flora alpina, e più in generale dell’ambiente naturale minacciato dalla speculazione e dall’ignoranza. Per citare solo alcuni aspetti di questa sua attività, era stato incaricato, nel 1972-1974, dalla Regione Piemonte di eseguire un primo censimento delle zone di interesse 245 naturalistico meritevoli di protezione, e di uno studio per un primo gruppo di parchi e riserve naturali, nel 1955-56 e dal 1967 al 1970 aveva diretto il giardino alpino « Paradisia » del Parco Nazionale del Gran Paradiso, ente di cui era membro del consiglio di amministrazione dal 1973, e fin dal dopoguerra si era adoperato per il ripristino del giardino alpino « Chanousia» al Piccolo San Bernardo, di cui era stato nominato direttore dal 1981. Questi impegni, portati avanti con un impeto ed un entusiasmo travolgenti, uniti ad un carattere talora troppo schietto e « scomodo », gli avevano procurato varie difficoltà e alienato non poche simpatie: ma nessuno ha mai potuto contestare al Prof. Peyronel il merito di aver dedicato, con fede e onestà, ogni momento della sua vita alla Botanica ed alla causa della protezione della Natura (anche quando quest’ultima non era «di moda»), Con Bruno Peyronel i Naturalisti piemontesi perdono uno dei loro più significativi rappresentanti, di quelli che credono veramente nel loro lavoro ben al di là degli impegni professionali, che limitano, e screditano, tanti «mestieranti» delle Scienze Naturali.


Continuiamo con la prefazione di Piero Bianucci al libro “Tra Natura e Società. L’impegno ambientalista di Bruno Peyronel” (1993) – di Valter Giuliano, ed. Pro Natura Torino

Era l’estate del 1968, anno fatidico per tante cose. A Cogne. Anzi, un po’ più su, a Valnontey, dove finisce la strada e incominciano i sentieri del Gran Paradiso. Lì dovevo passare qualche giorno di vacanza. Una settimana, o forse meno, subito dopo Ferragosto. Non per caso. A Valnontey c’era una ragazza.
Allora facevo il tirocinio da giornalista alla «Gazzetta del Popolo», di ferie ne avevo poche. Mi ero laureato a luglio dell’anno prima, ero entrato al giornale il primo novembre, data non augurale, e, come succede agli inizi, stavo facendo pratica un po’ in tutti i settori; qualche mese al servizio Interni, poi al servizio Esteri per sostituire un collega al suo turno di ferie.
La ragazza, invece, viveva l’estate tra il primo e il secondo anno di Università e frequentava il corso di Botanica sistematica. Era destino che di lì a poco ne perdessi le tracce per sempre, tuttavia all’epoca ci conoscevamo già da anni e io la trovavo deliziosa.
Non so adesso come vadano le cose, ma allora le matricole dovevano preparare un erbario, mi pare almeno con cento piante diverse, tutte con le loro foglie, i loro fiori, la loro classificazione. Era stato piacevole, in primavera, andar per prati e, intanto, tra una faccenda e l’altra, mettere insieme l’erbario. La ragazza seguiva pure un corso di micologia e frequentava l’Orto Botanico, di fianco al Castello del Valentino. Lì andavo ogni tanto ad aspettarla all’uscita dalle lezioni e qualche volta passeggiavamo tra i vialetti. Già curioso di scienza benché «licterato”, leggevo sui cartellini i nomi che Linneo o chi per lui aveva assegnato a questa o quella specie vegetale. C’è un fascino sottile nell’ordine delle classificazioni. Saranno anche noiose, però sono rassicuranti, ti danno la sensazione di possedere una bussola per muoverti nel Creato.
Fu dalla ragazza che sentii per la prima volta citare Peyronel. Più precisamente: il professor Bruno Peyronel. Con rispetto, da allieva diligente. Con un po’ di timore, da allieva che si prepara all’esame. Con ammirazione e simpatia, da allieva che si sente in sintonia con il proprio maestro. Probabilmente era stato l’insieme di questi sentimenti a farle accettare di andare, per quell’estate, a far da guida e da custode al Giardino di piante alpine di Paradisia, che Peyronel dirigeva.
Arrivai a Cogne a bordo di una potente Fiat Cinquecento sotto un diluvio d’agosto con accompagnamento di lampi e tuoni. La ragazza mi aspettava lungo la strada nel punto stabilito. Fradicia dai capelli ai piedi, con i vestiti incollati alla pelle, e la pelle di un abbronzato che così abbronzato, tra il rame e la cioccolata, non ho più visto nulla, almeno presso le popolazioni europee. Insomma, bellissima. Chiarì subito che ci saremmo visti poco. I suoi turni al Giardino Paradisia incominciavano all’alba e finivano dopo il tramonto.
Poi c’era la cena comunitaria (la comunità del Giardino). Poi forse ancora qualcosa da sbrigare. Si poteva giusto stare insieme mezz’ora prima dì andare a dormire, io nella mia pensioncina, lei – credo di ricordare – negli alloggiamenti di Paradisia.
Ci furono stellate eccezionali, in quelle poche sere che trascorsi lassù. Mi ero portato un cannocchialetto e guardare e far guardare stelle e costellazioni era già allora una delle mie occupazioni preferite. Ma il coprifuoco per la ragazza scattava molto presto e invece le giornate erano lunghe come la quaresima. Così una mattina, con l’attitudine del visitatore, mi infiltrai nel Giardino. La ragazza, stando al gioco, mi fece da cicerone.

C’erano, piuttosto stipate, circa 1500 specie di piante alpine, locali e straniere, più o meno rare. Altre classificazioni, altri cartellini con i nomi in latino: Astragalus centrucilpinus, Linnea borealis, Potentilla pennsylvanica. Fu in quell’occasione che scoprii varie specie di saxifraghe minacciate di estinzione e feci conoscenza con l’unica pianta carnivora delle nostre terre alpine. Fu anche in quella circostanza che conobbi Bruno Peyronel. Era quel che si dice un uomo robusto, cioè un po’ sovrappeso, e spostare i chili in più gli imperlava la fronte di sudore. Sì inerpicava per gli erti pendii di Paradisia indossando calzoni color crema lunghi al ginocchio e scarponcini leggeri sui quali spuntavano calzettoni di lana.
Quella tenuta montanara, i baffi, il portamento, il sorriso bonario, il tratto insieme rude e gentile, aderivano perfettamente all’idea che mi ero fatto del naturalista. Passò il ’68, cambiò il mondo, ma esattamente per tredici anni la mia immagine del naturalista rimase quella di Bruno Peyronel. E si che lo vidi davvero per poco: la mia vacanza, infatti, nata per essere breve, risultò in effetti brevissima, in quanto i carri armati sovietici proprio nella notte seguente occuparono Praga, e dal giornale mi richiamarono d’urgenza perché serviva qualcuno che rinforzasse il Servizio Esteri registrando la triste fine di Dubcek e della cosiddetta «primavera cecoslovacca».
I contatti con la ragazza si interruppero poi bruscamente ma quelli con Peyronel continuarono, sia pure molto saltuari. E, da parte sua, inconsapevoli. Non sapeva, non poteva sapere, che ero stato un interessato visitatore di Paradisia in una estate memorabile (per me). I contatti si dovevano al fatto che alla «Gazzetta», oltre alla Terza Pagina e al Diorama Letterario, curavo la rubrica delle lettere dei lettori. E il cittadino Peyronel spesso sentiva il bisogno di dire la sua in tema di natura, di ecologia (un argomento in quel tempo per pochi iniziati), di pacifismo. Grande merito di Walter Giuliano, curatore di questa preziosa pubblicazione, è aver avuto la costanza di andare alla ricerca anche di quegli interventi: estemporanei,
certo, ma sempre profondamente autentici e carichi di spirito civile. Interventi che ci restituiscono Peyronel come uomo democratico a tutto tondo, come «buon italiano» prima ancora che come scienziato. Oggi, con il senno di poi, da quelle lettere succinte come dai saggi più ampi, si capisce che Peyronel è stato un pioniere in tanti campi: nell’ecologia e nella politica demografica, nella protezione della biodiversità e nella gestione dei parchi naturali.
Se nei quattordici anni che ho trascorso alla «Gazzetta» i nostri rapporti sì limitarono a qualche telefonata e a qualche lettera destinata al giornale, quando nel 1981 passai a «La Stampa» le cose cambiarono. Giorgio Fattori, che allora dirigeva questo quotidiano, ebbe l’idea di dargli un supplemento scientifico. Il primo in Italia: in precedenza erano soltanto esistite «pagine della scienza» che fungevano quasi esclusivamente da contenitore di articoli piuttosto casuali. E Fattori, che sapeva del mio interesse per la divulgazione scientifica e conosceva almeno per «sentito dire» i vari libri che avevo pubblicato in quel campo, mi chiese di preparare per Franco Pierini un progetto di massima del supplemento e di fornirgli una lista di possibili collaboratori scelti nelle diverse discipline. In quella lista, primo tra i fisici, c’era, ovviamente, Tullio Regge, che avevo già indotto quasi con la forza a collaborare alla «Gazzetta». E c’era, altrettanto ovviamente, primo tra i naturalisti, Bruno Peyronel.
Venne a trovarci in redazione, si informò del progetto editoriale, disse che gli sembrava una bella idea e che gli interessava. Così il 28 ottobre 1981 usci il primo numero di «Tuttoscienze». E il 2 dicembre su ” Tuttoscienze ” uscì il primo articolo di Peyronel. Che era dedicato alle piante igroscopiche, da sempre considerate il «barometro dei contadini».
Purtroppo non fu una collaborazione lunga. Come documenta Walter Giuliano, si trattò in tutto di dieci articoli. E gli ultimi due uscirono postumi. Peyronel manteneva inalterati il suo sorriso, il suo umorismo, la sua serenità. Né lui ne parlava né noi potevamo intuirlo. Ma era malato. Non fu tuttavia «quella» malattia a portarcelo via, ma un accidente improvviso.
Lo sapemmo in tipografìa quando si stava per tirare la bozza del numero di «Tuttoscienze» che reca la data del 17 novembre 1982 e ci fu appena il tempo di mettere qualche riga prima dell’inizio di un articolo che Peyronel aveva dedicato ai «bisnonni verdi», cioè agli alberi più vecchi d’Italia. La settimana dopo uscì l’ultimo articolo, che avevamo ancora nel cassetto, «Il segreto dei cardi senza spine». Senza ulteriori annotazioni. Forse volevamo, in questo modo, far finta che fosse ancora tra noi.
Ho molto nitido il ricordo dell’ultimo incontro, avvenuto circa tré settimane prima della scomparsa. Parlò di come la botanica, meglio, le piante, non fossero abbastanza considerate nonostante la loro fondamentale importanza nel ciclo biologico. Voleva arrivare al fatto che anche « Tuttoscienze » trascurava il mondo vegetale, magari a favore di quello animale, e soprattutto di quella disciplina giovane e alla moda che era allora ed è tuttora l’etologia. Non si poteva che essere d’accordo con lui. Decidemmo allora due linee di intervento: da un lato spiegare in una serie di articoli la fisiologia vegetale e i rapporti tra il regno verde e gli altri regni; dall’altro lato, avviare in una seconda serie di articoli un viaggio attraverso gli alberi monumentali italiani, dal «Castagno dei Cento Cavalli» in Sicilia agli ulivi di San Francesco in Umbria, a tanti altri meno celebri alberi plurisecolari.
L’articolo “I bisnonni verdi” doveva essere appunto l’introduzione a questa sorta di inchiesta su uno dei più misconosciuti patrimoni naturali del nostro Paese, e la sorte ha voluto che all’introduzione ci si fermasse.
Sono passati altri undici anni. Rivedendo quei dieci articoli sui quasi quindicimila che nel frattempo «Tuttoscienze» ha complessivamente pubblicato, mi colpisce constatare come non sia la quantità a contare, ma la qualità. Nella stragrande maggioranza dei casi, non ho memoria alcuna delle migliaia di articoli che ho chiesto ai collaboratori, dei quali ho curato l’editing, ai quali ho dato un titolo. Tutto si mescola in una nebulosa indistinta. Ma per quei dieci articoli di Peyronel, un millecinquecentesimo del totale, mi è bastato scorrere le prime righe per sentirli riaffiorare alla memoria. Non solo; lo stile affabile, il garbo della costruzione, l’umorismo dissimulato tra le righe, per una associazione ineluttabile, fanno subito tornare alla mente l’uomo e il ricercatore. Leggi quelle righe e rivedi lui, risenti la sua voce, ti sembra che sia lì, davanti a tè. Anche adesso che l’intera raccolta di “Tuttoscienze” non è più fatta soltanto di carta ma è diventata un paio di Cdrom. Due dischi ottici nei quali, per fortuna, rimane una traccia di Bruno Peyronel e del suo inconfondibile gusto didattico. Chissà, se è da qualche parte, se c’è qualche parte dove prima o poi tutti andiamo, forse gli farà piacere sapere che le sue parole ora sono scritte anche in codice binario. E perdonatemi se, invece di parlare di lui, ho parlato di ciò che lui ha lasciato dentro di me. E’ il destino dei Maestri.